CHI SONO? Frontman del trio americano è il visionario tuttofare Luis Vasquez.
COSA SUONANO?
Sonorità post punk dal carattere cupo, ipnotico ed inquieto.
PERCHÉ VENIRE AD ASCOLTARLI?
Se ve li siete persi in apertura dei Depeche Mode durante il loro ultimo tour europeo, questa è la vostra occasione. Se no sapete già perché venire.
#anltascolta
VUOI SAPERNE DI PIÙ? The Soft Moon, guidati dal visionario compositore americano Luis Vasquez, vengono scelti come opening del tour 2014 dei Depeche Mode dopo l’uscita del loro secondo LP ZEROS. Scritto e registrato “on the road” – e stavolta supportato da una vera e propria band – ZEROS è un album a metà tra la New York dei Suicide e la Manchester più oscura marchiata Factory Records.Vasquez si conferma un figlio legittimissimo del post punk.
Ci sono stati dei cambiamenti dall’uscita nel 2010 dell’album d’esordio. Mentre l’omonimo album Soft Moon era stato registrato in totale solitudine e senza nessuna reale aspettativa, quasi come uno sfogo personale, i nuovi 10 brani che compongono ZEROS sono stati scritti e registrati on the road pensando a un ipotetico pubblico che li ascoltasse. Il suono di Soft Moon si è espanso, divenendo quello di una full band; ma i suoni, sebbene più curati e precisi (il produttore è Monte Vallier) sono sempre quelli orrorifici, onirici e primordiali che avevano segnato l’esordio Soft Moon. ZEROES è un viaggio compatto e coerente, un’immersione nell’inconscio più nero, nell’oscurità più inquietante, ZEROES è un sogno in cui è possibile sentire la paura, l’angoscia, la nostra umanità più profonda e dolorosa. La forma canzone viene ormai del tutto abbandonata, e le singole tracce sono tasselli di un discorso più ampio, frammenti sonori di un immaginario sonoro e visivo ben preciso. Gli elementi del viaggio sono il krautrock, la dark wave, l’industrial e il punk.
CHI SONO?
Tre ragazzi originari di Pesaro, già patria dei Be Forest e dei Brothers in Law.
COSA SUONANO?
Solido e veloce post-punk.
PERCHÉ VENIRE AD ASCOLTARLI?
Sono una di quelle band che, almeno una volta nella vita, dovresti sentire live; una di quelle band che ti convincono – anche se nella vita ascolti solo quel gruppetto di tuoi amici che conoscete solo tu e il tuo gatto.
Se questo non dovesse convincere te (o il tuo gatto, gatto diffidente!), per Pitchfork, The Fader e Stereogum sono una delle migliori formazioni post punk in circolazione.
#anltascolta:
VUOI SAPERNE DI PIÙ?
I Soviet Soviet nascono tra Fano e Pesaro nel 2008 e sono formati da Alessandro Costantini alla chitarra e voce, Alessandro Ferri alla batteria e Andrea Giometti al basso.
Già nel 2009 autoproducono i loro primi due EP dai titoli No Title e Soviet Soviet. I due CD ottengono un buon successo di critica, tanto che il gruppo viene recensito anche su Pitchfork.
Nel 2010 pubblicano, per l’etichetta franco-inglese Mannequin, uno split con i Frank (Just Frank), di cui parlerà anche Simon Reynolds nel suo libro Retromania. Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato.
Nel 2011 esce l’acclamatissimo EP Summer, Jesus al quale segue una instancabile attività live in tutta europa fino alla Russia.
Alla fine di Ottobre 2013 la band ha aperto le date italiane dei PiL, scelti da John Lydon in persona e ha suonato negli USA per promuovere il disco d’esordio, ‘Fate‘, pubblicato a Novembre dello stesso anno per la newyorkese Felte Records.
Esben and the Witch prendono il nome da una fiaba danese carica di magia e di minaccia.
Si collocano precisamente al confine tra tipiche suggestioni dreamy, dall’incedere languido, colmo di escursioni oniriche, tra mito e leggenda.
Le loro sonorità, spesso bjorkiane e à-la Portishead, ( anche se, relativamente a entrambi i riferimenti, qui l’uso dell’elettronica è dosato al minimo), sembrano fatte della stessa materia degli incubi e la voce di Rachel riporta immediatamente all’immaginario mondo bröntiano.
“Sembra muoversi come una fiaccola nera fra spasmi emotivi e antiche passioni, cercando una testimonianza dentro un mondo immobile e ghiacciato “ e ricco di stratificazioni e sensi di lettura, dal più romantico al più spirituale sino a quello più squisitamente fragoroso tra dark-post punk e noise, con un lirismo diretto dai continui cambi cromatici.
Evolutisi ancora da quell’attitudine darkwave che spuntava orgogliosa dietro il debutto di “Violet Cries”, i ragazzi di Brighton con il nuovo lavoro “Wash the sins not only the face” (Matador Records 2013) raffinano il proprio stile in un’opera sofisticata ma non difficile, profondamente dark e pop insieme.
Esben and the Witch music has been described as “electronic dubstep soundscapes” and “Radiohead without the mithering, goth stripped of unnecessary melodrama”, with Rachel Davies’ vocals compared to Siouxsie Sioux and PJ Harvey.
Named after a Danish fairy tale and crafting fittingly eerie and bewitching music, Brighton, England’s Esben & the Witch features guitarist/keyboardist Thomas Fisher, electronics/guitarist Daniel Copeman, and vocalist/percussionist Rachael Davies. The trio formed in 2008 when Fisher convinced Copeman to make the music he was working on available to the public, and the pair drafted Davies to become their singer. The band’s live act drew attention, as did their self-released 2009 EP 33. Esben & the Witch played gigs with Deerhunter, the xx, and Foals, and released the single Lucia, At the Precipice in 2010. That May, they contributed their song “Corridors” from 33 as the soundtrack to an installation by artist Karl Sadler as part of the London edition of the Creators Project. Later in 2010, Matador Records signed the group and released the Marching Song single that October; in December, it was announced the band made the long list for the BBC’s Sound of 2011. That January, their debut album Violet Cries arrived to critical acclaim.
Early in 2013, the group resurfaced with Wash the Sins, Not Only the Face, a more polished and focused set of songs.
Drawing inspiration from personal experiences, geography, history and literature, their second release condenses their post-rock influences into the notation of their music, orchestrating the evocative ebb and flow of their short stories into something that is palpable to the listener.
“Vengono da Brighton e dipingono tele inquiete usando tutti i colori del buio. In un momento di evidente ritorno per le sonorità neo-gotiche, tanto nei fenomeni più o meno “under” come Zola Jesus e la witch house, quanto in quelli più commerciali e pop con il taglio sempre più eighties di produzioni come Bat For Lashes e The XX, Esben and the Witch sembrano capitare talmente alla perfezione che il sospetto di operazione costruita furbamente da qualche homo marketing viene quasi automatico. I dubbi vengono dissipati dalla sostanza delle idee e dei suoni che i tre muovono. L’eppì dell’anno scorso aveva spinto qualche penna lungimirante a parlare di next big thing, la firma successiva per Matador e il conseguente tour con Zola Jesus hanno spinto verso l’hype, in maniera tanto classica quanto efficace.
Il suono dei ragazzi di Brighton si riallaccia in maniera devota alla più solida tradizione britannica del nero senza il minimo accenno di incertezza, ma anzi con un’energia ruvida e creativa, che non si sentiva da anni in questo tipo di sonorità. Già l’ep di debutto, su sei brani vanta almeno due piccoli classici (Marching Song eAbout This Peninsula, per non parlare della micidiale Skeleton Swoon contenuta nella compila Dance to the radio), che da sole basterebbero a ridicolizzare decine di band che hanno pensato bastasse copiare i riff dei Sisters Of Mercy e il canto psicotico di Peter Murphy, per costruirsi un’identità. Gli Esben di contro, pur non inventando nulla, riescono a creare perfetti congegni pop (anzi “nightmare pop” come li chiamano loro) usando il linguaggio del gotico inglese come fosse una grammatica.
The Marching Song cos’altro è se non la loro Spellbound, rallentata, inacidita e astutamente inquietante nella sua fissità ritmica? E il riferimento ai Banshees torna con insistenza nel corso del disco, non foss’altro che per il taglio veemente e glaciale dei vocalizzi della cantante Rachel Davies, novella dominatrix dark, che da sola fa metà disco alternando cupa crudeltà (Chorea) e malinconiche verità (Eumenides, Swans). La produzione di Daniel Copeman completa l’opera intervallando abilmente elettronica e chitarre, riverberi ed echi, in un modo che a tratti li porta dalle parti di una Björk arcigna ed austera (Light Streams, Hexagons IV) o meglio ancora di una Bat For Lashes per adulti (Warpath). Violet Cries è un altro esempio perfetto di come nella pop music nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.” Sentireascoltare
“When Esben and the Witch released their 2011 debut, Violet Cries, it aligned them with then-current goth pop (Zola Jesus, Austra, Chelsea Wolfe), and, as Jayson Greene concluded in his review of the album, “the cumulative impact [was] more tepid than bone-chilling.” The Hexagons EP released later that year diluted the debut’s hints of darkness even further. But the band’s new album, Wash the Sins Not Only the Face, manages to transcend the band’s cobwebby connotations. Here Esben and the Witch lean towards post-rock, which edges them in the direction of bands that are haunting without being specifically gothic, like Warpaint or Wild Beasts.
Singer Rachel Davies keeps within a narrower vocal range on this record, employing dense layering as a means of intensity. “I haven’t drunk for days/ I’m heady with the haze/ I’m sinking,” she sings on the hypnotic “Shimmering”, where rattlesnake tail guitars shake over ride cymbals. The song is emblematic of the sustained tension that ebbs and flows over the course of Wash the Sins; “Slow Wave” never really reaches a specific precipice, but maintains a nervous edge thanks to its militaristic drum beat and the eerie sounds coming from Thomas Fisher’s guitar.
That said, Wash the Sins isn’t just a mood exercise. One of the shortest songs on the album, “Despair”, where clawing guitars build to a vicious climax, is noticeably louder than anything they’ve done before. “When That Head Splits” has some bounce in its rhythm, and opener “Iceland Spar”‘s initial seconds of silence are swiftly exploded by a spiky maelstrom– a satisfyingly furious streak picked up in the appropriately named album closer, “Smashed to Pieces in the Still of the Night”, where high-pitched, dissonant guitars riff out to a galloping, near-proggy conclusion (…)” Pitchfork
L’Associazione culturale A Night Like This, in collaborazione con il Comune di Chiaverano, annuncia il ritorno di A Night Like This Festival, il 20 Luglio 2013 a Chiaverano (TO) per la sua seconda edizione.
Tra gli artisti in line-up: Esben and The Witch, il trio di Brighton la cui cantante Rachel sembra incarnare il mondo di Emily Brönte in un’opera sofisticata, dark e pop allo stesso tempo – Egyptian Hip Hop, la rivelazione di Manchester: chitarre abbronzate e sintetizzatori, irresistibili ed imprevedibili, trascinano i tuoi sensi lontano in qualche isola del Pacifico. Vadoinmessico, la band cosmopolita con base a Londra ed il suo mix di strumenti e ritmi di varie culture tenuto abilmente insieme da raffinate melodie pop – Cosmo, il cantautore del futuro anteriore che fa convivere la canzone d’autore con l’elettronica e la psichedelia in un live che è tutto una sorpresa – Dumbo Gets Mad, il duo formatosi tra Los Angeles e Reggio Emilia in una fusione ad alto contenuto psichedelico. Inoltre Paletti,Brothers in Law, Le Case del Futuro e molti altri.
Lo scorso anno il piccolo paese, gioiello medievale nascosto nel Canavese, accanto ad Ivrea e ad un passo dal bellissimo Lago Sirio, ha aperto le sue porte ad un pubblico giovane e curioso che per un giorno ne ha raddoppiato la popolazione.
La scommessa è stata vinta: un viaggio non solo musicale, ipnotico e coinvolgente in una location mozzafiato e fuori dai consueti circuiti cittadini. La proposta ritorna con oltre 20 band su tre palchi: 10 ore di musica, Area Expoprodotti handmade e degustazioni a km zero.
Strutture convenzionate, servizi navetta che collegano la vicina stazione di Ivreaall’area concerti e al campeggiosulle sponde del Lago Sirio, nelle cui acque è possibile nuotare circondati da un paesaggio unico, regalano la possibilità di trascorrere un weekend estivo low cost di puro relaxe magia,
Ticket: 10 euro – Apertura porte h 15:30 Inizio concerti ore 17:00
I Brothers In Law sono un trio proveniente da Pesaro, su quella costa est sempre così sorprendente, terra della new wave italiana.
Sarà stato il mare inquinato ad insinuare i suoni sporchi nelle loro canzoni. Nascono come duo nel 2011, pubblicano un EP (s/t – Tannen Records), poi entra in formazione un batterista che suona in piedi e danno alle stampe un nuovo singolo (“Grey Days” – We Were Never Being Boring collective – 2012).
Intanto girano un po’ dal vivo e dividono palchi con band come Wild Nothing, Still Corners, Dum Dum Girls, Jacuzzy Boys, Neon Indian e altre. Immagino che da ognuna di queste volessero rubare qualcosa o qualche idea, ma alla fine – come sempre – si lasciavano solo trascinare dalla musica.
Comunque, sul finire dell’estate del 2012 registrano il loro primo album autoprodotto “Hard Times For Dreamers” (We Were Never Being Boring – 2013). Il disco racconta la storia delle loro vite, quello a cui tengono e che vogliono tenersi stretti. Tra chitarre scintillanti e polverosi riverberi, un suono luminoso di adolescenze oscure, periferie e amore. I Brothers In Law sono stati invitati quest’anno anche al SXSW Festival di Austin, Texas, festival culto per tutto ciò che è nuovo nel mondo dell’arte e dei media.
File under: banditi dream-pop; collezionisti di C86; amanti della Captured Tracks.
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Brothers in Law is a three pieces band born from a real relationship connection. Funny enough their music is much more powerful than their (almost) blood connection. From the always surprising Italian east coast the dirt of the ocean sneaks into this recordings like a wave in your face while closing your eyes in front of the sea.
“Considerata l’evoluzione degli ultimi dodici mesi era ovvio aspettarsi un album di debutto superiore all’acerbo ma pur buono EP Gray Days e così è stato. Si intitola Hard Times For Dreamers (non credo sia un tributo alla canzone dei Reverend And The Makers…) ed è composto da otto tracce, mezz’ora di musica pubblicata dalla We Were Never Being Boring con la partecipazione della CF Records (Girls Names e Cloud Nothings in passato) e stampata anche in Giappone via Cocoheart Records.
Meno The Jesus & Mary Chain rispetto agli esordi, il suono si è fatto meno tagliente e più disteso: nonostante si porti avanti con fierezza la formazione a due chitarre (Lampredi, Giacomo Stolzini) più batteria (Andrea Guagneli), entrano in gioco elementi sintetici. (…)
È UK-sound della seconda metà degli anni ’80 rivisitato secondo i canoni indie-USA anni dieci. Un lavoro tutt’altro che monocorde – e chi li ha visti agli esordi sa a cosa mi sto riferendo – che spazia dalla quickness jangly del singolo Leave Me alla slowness pop di Childhood, due delle tracce cardine dell’intero lotto.
La loro presenza al SXSW 2013 potrebbe essere solo l’inizio. E se la Captured Tracks si accorgesse di loro…” Sentireascoltare
” Tempi duri per i sognatori, certo, ma questo non ha impedito ai tre ragazzi marchigiani di mettere insieme otto pezzi dalla contagiosa nostalgia, dall’eterna malinconia grigiastra, quella bella, leggera, che ti avvolge, che ti fa sognare, appunto. Questo disco è un un piccolo contenitore magico, all’interno del quale si possono trovare affascinanti suggestioni dream pop e surf che si trasformano in richiami shoegaze. (…)
Il gioco su cui regge il lavoro dei BIL è sempre lo stesso: le chitarre di Nicola e Giacomo riverberate e distorte, batteria decisa e semplice, voce bassa, calda e introversa. Tuttavia, già con l’opening track “Lose Control” si riscontrano alcuni elementi di cesura rispetto al primo Ep “Gray Days”. In primo luogo l’inserimento dei synth, fondamentali per dare in alcuni frangenti maggiore sensibilità e dinamicità alla compattezza di alcune tracce, le chitarre invece sono sempre riverberate, ovvio, ma i suoni sono più sfumati, distesi, acquistano corpo pian piano, ti prendono ed entrano in testa senza lasciarti tregua. (…)
Un disco avvenente, dalle mille ombre sonore di genere ma che contemporaneamente possiede una coesione interna speciale, capace di far vibrare emozioni inaspettate. Tempi duri per i sognatori, già, ma i Brothers in Law ci hanno regalato un preziosissimo e affascinate alleato, capace di far intravedere scenari più rassicuranti e seducenti. ” Rockit
(it) Considerati dalla stampa specializzata come una delle band più interessanti del panorama indipendente italiano, tornano ora i Drink To Me con un nuovo e attesissimo lavoro, a distanza di due anni da “Brazil”. Nel loro “S”, i Drink To Me (ora tornati ad essere un quartetto) dimostrano una volta in più di non essere per nulla appagati, proseguendo incessanti nel loro percorso stilistico in continua evoluzione, fatto di incroci di batterie, synth e bassi pulsanti.
Musica per orecchie esigenti e instancabili, che non si accontentano soltanto di suoni accattivanti, ma cercano un’idea, una sensibilità, uno stile. Il risultato sono dieci tracce eclettiche, fresche e internazionali.
(en) Active since 2002 Drink To Me have released 4 DIY EPs, 3 albums and a 7”.
Their official debut album (Don’t Panic, Go Organic – 2008, Midfinger Records) was recorded in London and mixed by Andy Savours (Blonde Redhead, Yeah Yeah Yeahs, The Killers, The Horrors).
The second one, Brazil, was released in 2010, following their signing to one of Italy’s premier independent labels, UNHIP Records. Alessio Natalizia (Banjo or Freakout, Walls, Disco Drive) produced most of the tracks on the album, and also co-wrote a couple of them.
The last one, titled “S”, is their masterpiece. During the last years the band changed its sound, putting the rock matrix in the background, and letting the electronic side take over with kraut-minimalist repetition and rhythm sections tasting Brazil and West Africa. “S” contains an original mixture of tribalism, black music, psychedelia and a honest pop attitude. They dropped guitars and built harmonic walls of samples and synthesizers. Deep low frequenciens and interlocking beat patterns sorround a freely developing singing.
They’ve since toured all over Italy, playing about 200 shows (and celebrating their 100th concert as support for Editors in Turin). Their shows are powerful, irresistible and spontaneous: a punch in your stomach to make you smile!
“Una storia fatta di passi lunghi e decisivi, quella dei torinesi Drink To Me. Nel 2010 lodavamo la pregevole mistura di Liars, afrobeat, kraut, psichedelia di un Brazil che rispetto a un esordio più interlocutorio guadagnava punti e ora il suo successore ci spinge ad avventurarci ancora più lontano. E il bagaglio non è dei più leggeri, visto e considerato che S riprende in parte le istanze del precedente lavoro (soprattutto gli onirismi à la Animal Collective) svestendole degli accorgimenti più tribal-post punk per fare posto ai sintetizzatori.
Operazione a rischio banalizzazione se ci pensate, visti i tempi dominati da un’estetica korgiana ormai onnipresente e quasi mai sfruttata a dovere. E invece il combo arriva a una definizione di un suono avvincente, tarato al millesimo, multisfaccettato ma coerente, a sancire così un’identità perfettamente in linea con il contemporaneo: la ridondanza di M.I.A sul clapping dell’iniziale Henry Miller, gli Of Montreal/Field Music di una Picture Of The Sun ideale singolo, il Sufjan Stevens psichedelico di The Elevator, l’electro dei nostrani Aucan in Dig A Hole With A Needle.
A tutto questo si aggiunga un’attitudine pop da grande band, in generale più esposta rispetto agli esordi, ma anche capace di farsi scoprire con la dovuta calma in un disco che nei suoni è un sbronza colossale e da quelli chiede di partire. Armonie vocali e linee melodiche pompate da una produzione dispersa in un caleidoscopio di timbri e colori: eppure svestitelo, questo S, e vi accorgerete che tutto funziona anche senza bisogno di additivi. E non è questo, forse, il miglior complimento che si possa fare alla terza fatica dei Drink To Me?” Sentireascoltare
I Be Forest provengono della east coast nostrana, dalla ricchissima scena di Pesaro per l’esattezza. Echochitarre al delay, basso atmosphere, voce calda e cupa allo stesso tempo, sussurrata, presente / assente quanto basta, ritmiche serrate e minimali, tutti e tre in piedi.
A colpire dritto al cuore e’ il loro approccio diretto e senza fronzoli, l’educazione, l’urgenza, la consapevolezza.
Be Forest is the surprise we’ve been expecting for a long time, the connection between our lost melodies and the freshness of the raw purity. They play a cool-dreamy-ambient-wave that springs out from their melodies as if it was the most natural thing. That’s why they just sound like Be Forest: fresh, nostalgic, direct, pure, cold, naive, groovy
“Dark, new wave, shoegaze, dream-pop vanno a comporre una miscela che riesce nell’arduo tentativo di risultare costantemente affascinante e oscura, congelando il tutto in un’atmosfera asettica costruita riverbero su riverbero, mentre un’eco celestiale in lontananza ci guida lungo il sentiero incerto della foresta. Sì, quella foresta che però, in fondo, non è poi davvero quella. Perché i be forest, partendo dai contorni esili e sfuocati degli alberi immortalati nell’80, sanno abbandonare con padronanza il sentiero tracciato dai maestri volgendo continuamente lo sguardo altrove, fino a disegnare nuove forme che sanno porsi sulla linea di confine fra passato e presente in modo sempre convincente.” Federico Anelli / Shiver Webzine
“Riverberi, bassi tirati, voci mixate dentro, atmosfere cupe&rarefatte, eleganza&spleen, urgenza&attitudine, ovvero la new wave di stampo classico riproposta ai giorni nostri. I numi tutelari, i dischi di riferimento, gli ascolti ossessivi sono ovviamente i Cure (d’altronde il richiamo è palese fin dal nome), ma anche e soprattutto Cocteau Twins e Cranes. Niente di nuovo, lo sappiamo, ma tutto fatto come si deve, e soprattutto con gusto, con molto gusto. Per dire, “Wild Brain” e “Dust” sono i pezzi mancanti di quel gioiellino che è stato l’esordio dei The XX. Ci siamo capiti insomma: 2 ragazze e 1 ragazzo, giovanissimi, dalla provincia profonda, da una cittadina che è come uno sputo di cemento in riva al mare, che confezionano 9 tracce che ti scivolano sottopelle, ipnotiche, onde concentriche che si rifrangono nei tuoi pensieri, amplificando ricordi, risvegliando sensazioni assopite.” Rockit
Gli Starcontrol sono una band il cui genere, ibrido di sonorità new wave, richiami post-punk, eighties e indie contemporanee, è stato definito da alcuni “spleen wave”. La loro musica è la malinconia di un pomeriggio d’estate infinito e sospeso nel blu, un’impellenza punk procrastinata per l’ora del tè, un ricordo di notti passate a rubare pannocchie con gli amici, il male di vivere che ti siede di fronte in una stanza vuota alla luce di una lampadina, il tentativo di riportare indietro le cose perdute, una speranza.
All’attivo hanno un omonimo E.P. di sette pezzi e una gran quantità di concerti live, principalmente tra Milano e brianza.
“STARCONTROL ep (2011, autoprodotto)
“the void” ad aprire fa subito capire il mood dell’intero lavoro, darkwave molto anni ’80 miscelata con la frenesia del presente; la voce di Davide si lega al basso cavernoso e chitarra che cita certe epicità alla SISTER OF MERCY (i primi), fino ad esplodere in un overdose di synth da paura! se non eri contento del primo pezzo ecco subito “night & fire” (la mia preferita) che inizia fra le nebbie tribali stile VIRGIN PRUNES (ok meno spigolose però) e poi va verso un lirismo-chitarrismo molto jangle-pop ma anche molto BLOC PARTY… insomma pezzone! non contento? ecco “feel x” il singolone! e che pezzo! l’attacco è fenomenale: la drum-machine non da tregua e la chitarra MISSIONitica che sprizza energia da tutti i pori per poi dare spazio al basso cavernosissimo molto coldwave! “intuition” è il colpo d’assestamento: gli STARCONTROL danno una ripassata (sempre rimanendo nel mood darkettoso) a certi suoni indie, e sto pezzo sa un casino di REM in periodo MURMUR ma frullati con gli INTERPOL (l’immagine di Peter Buck che suona con la band newyorkese mi provoca…). Ritmi funerei, basso alla MAROCCOLO primi LITFIBA è “bruising” che con il suo incedere marziale (ma non troppo) fa sentire le ottime doti tecniche del terzetto. I SYSTER OF MERCY (i secondi) e il goth rock epico ritornano con “colorado springs” mentre “useless” è l’ultima scarica adrenalinica fra post-punk alla JOY DIVISION e coldwave alla ASYLUM PARTY! bellissimo ep/mini-album/album/quellocheè. Forse chi non ama certe atmosfere plumbee storcerà il naso, ma io vedo un ottimo lavoro, omogeneo pur divagando fra varie citazioni. Insomma sono giovani, bravi e sanno scrivere canzoni! il tempo li metterà alla prova.” DEAD LETTER OFFICE
“Potremmo spacciarli per un gruppo inglese. O tedesco. O australiano.
Ma non lo faremo.
Vuoi perché loro ci pensano da soli; vuoi perché in fondo non gliene importa molto.
I Foxhound sono quattro ragazzi di diciannove anni, che alla loro età ne hanno trenta.
Sono quattro musicisti stranieri con cittadinanza italiana.
Un live senza compromessi, che attraversa a sguardo fisso il mare di gruppi emergenti, puntando
altrove, oltre confine, attraversandolo e arrivando a dimostrarci che si può essere stranieri in
mezzo ai nostri simili senza rischiare di affogare.
I Foxhound ci ricordano soprattutto che si può fare a meno di classif icare in categorie di sorta tutto
ciò che raggiunge il nostro orecchio.
Potremmo inventarci storie, ma non lo faremo.
Ascoltateli, poi pensateci voi. ” Ancheno
Reviews
“Vi dico solo che la prima volta che li ho visti dal vivo ho creduto di assistere ad uno di quei concerti dove gli
headliner li mettono all’inizio, così i lavoratori poi vanno a dormire tranquilli e i beoni restano a far festa.
Sono sicuri sul palco, le voci ben armonizzate, un gran tiro e una media anagrafica che galleggia sui 19.
Da un gruppo così potrebbe uscire di tutto.” Rockit
“Sono una delle scommesse più belle e coraggiose, da tenere stretta per l’anno alle porte. L’anatroccolo che si prepara a diventare cigno, una capacità compositiva fresca e schizofrenica, macchiata da colori e precise idee di melodia, sintomo dell’avere appena ventanni a testa. Un’altra manciata di canzoni così può dare loro il la verso un futuro tutto da scoprire.” Marcello Farno
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